mercoledì 16 gennaio 2008

Teo Teocoli, un meridionale trapiantato in Padania


Sessantatrè anni il 25 febbraio. Non glieli daresti mai. T-shirt nera aderente, muscolatura discreta, non un filo di pancia, Teo Teocoli, ragioniere mancato, si è presentato così al numerosissimo pubblico napoletano che affollava il teatro Augusteo per il suo Spettacolo a richiesta. Una piccola band di maestri del rithm&blues alle spalle – la Doc Beat - e due ore di chiacchiere a ruota libera (o quasi) davanti a un “tutto esaurito” con una gran voglia di ridere.

E la risata era pronta a scoppiare anche quando – come nella prima parte del oneman show – in un lungo amarcord, Teocoli racconta della sua emigrazione dal più profondo Sud, qual è l’ultima propaggine di Reggio Calabria – anche se lui nasce a Taranto - fino alla desolante Pianura Padana, dove anche l’unico albero che faceva ombra e da supporto ad un’altalena, viene tagliato, dalla sera alla mattina. Emulo del ragazzo della via Gluck che dal prato verde vede sorgere il cemento, il simpatico artista non disdegna qualche momento di commozione che però viene riscattato da una “seconda parte” scoppiettante grazie alla perfetta imitazione del molleggiato.

Padrone della scena anche nei lunghi silenzi, Teocoli si compiace di parlare di sé e la malinconia di una gioventù trascorsa nelle periferie, tra le lambrette, la costiera romagnola, l’idrolitina e l’amore mai corrisposto di Franchina.
Evita accuratamente la crisi che Napoli sta attraversando e trascina il pubblico a cantare Una carezza in un pugno, mentre la platea illuminata e trasformata in un coro a più settori, si lascia trasportare nella improvvisata performance canora, senza pensare.

E’ il vero Teocoli, quello che imita Celentano (perfetto) anche nella più difficile L’emozione non ha voce e che strappa applausi sinceri, quasi un’ovazione, per poi passare al suo personaggio più amato, Felice Caccamo, il giornalista sportivo napoletano con l’ulcera “triodenale”- “perchè è più grossa della duodenale” - stravaccato sulla poltrona e quasi oppresso dalla giacca troppo stretta e da un enorme nodo alla cravatta che lo soffoca. Si compiace nel parlare a vanvera e dire stupidaggini visionarie alle quali il pubblico, mandato più volte a quel paese, si diverte da matti. Esilarante il momento in cui chiama in scena il bravo chitarrista Armando Celso che gli fa da spalla, muto, ma estremamente eloquente negli atteggiamenti che più seri non si possono immaginare.

Per finire con un sano medley di canzoni napoletane, da ‘ O surdato ‘nnamurato, a Chiove e a Simm ‘e Napule paisà che sfociano in un liberatorio Volare che per un breve istante ha riconciliato Napoli con i napoletani.


tratto da www.napoli.com

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