giovedì 24 febbraio 2011
«Ora un libro sul Dogui» Sabato al Creberg con «Unplugged»: il Teo nazionale si racconta
Il personaggio che ama maggiormente è Felice Caccamo («ormai è come se fosse una persona reale»), il mitologico giornalista sportivo partenopeo al quale diede - ignaro del fatto che sarebbe diventato uno dei cavalli di battaglia - il suo vero cognome di battesimo. Teo Teocoli, 66 anni dopodomani, 46 dei quali passati nel mondo dello spettacolo (esordì come cantante per la Dischi Ricordi, poi un anno nella PFM, l’inizio dell’avventura con il Clan Celentano, il debutto nel musical Hair, la gavetta al Derby e la grande notorietà televisiva), ha conosciuto e frequentato i personaggi del jet set mondiale: Salvador Dalì, Brigitte Bardot, Robert De Niro, Harvey Keitel, l’avvocato Agnelli, ma anche Adriano Celentano, Cochi e Renato, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci. Proprio con uno dei suoi amici di lunga data, Mario Lavezzi, ha dato vita a un nuovo spettacolo: Unplugged, cioè Anplagghed, tra i titoli più attesi della stagione del Creberg, in scena questo sabato.
Ma il suo migliore amico è stato un bergamasco: Guido Nicheli, meglio conosciuto come il Dogui, il cumenda o lo Zampetti de I ragazzi della terza c. Quando ne parla, si riempie di gioia nell’evocare tempi che furono; felicità che si trasforma presto in malinconia, per la scomparsa della persona che gli ha fatto scoprire il mondo. «Non passa giorno che non pensi a lui» spiega, con la voce che si affievolisce.
«MOLLAI LA PFM PER PIGRIZIA»
Ne La compagnia dei giovani ospitò sul palco Tony Dallara, Gaspare e Zuzzurro e Mario Lavezzi, che ricompare ancora come special guest di Unplugged: vien da pensare che per lei sia importante lavorare con gli amici.
«Sì. In questo caso è un ritorno al sapore cabarettistico, cui ho voluto aggiungere il cantautorato. Io e Mario abbiamo molto in comune: sia per le professioni, che per quanto riguarda le nostre vite. L’ho conosciuto 50 anni fa: eravamo due ragazzini. Abbiamo percorso strade diverse e ci siamo reincontrati di recente, grazie ad amici. In scena portiamo gli aneddoti che hanno arricchito questo percorso. Unplugged è uno spettacolo suggestivo: sul palco ci sono soltanto una chitarra e due microfoni, eppure si crea una situazione piacevole».
La sua carriera, però, ha avuto molto a che fare con la musica: dal 1966 al 1967 fu la voce de I Quelli, poi diventati Premiata Forneria Marconi. Si è mai pentito della chiamata che fece a Franz Di Cioccio, per ritirarsi dalla band?
«No, sono stato onesto a mollare I Quelli: io non ho molta pazienza, energia o voglia di apprendere. Vivo di fantasia e di improvvisazione, mentre la musica richiede studio e desiderio di crescere. Le faccio un esempio: non ho mai imparato il giro di do con la chitarra! L’unica cosa che mi poteva dare continuità lavorativa era raccontare: con le canzoni non avrei avuto un vero percorso. Però, per i 35 anni, la PFM mi ha invitato al concerto al Rolling Stone e ci siamo esibiti insieme: è stata una serata bellissima e hanno persino messo la mia foto nel cofanetto».
Al Creberg, insieme a lei e a Lavezzi, ci sarà un altro suo amico: Felice Caccamo. È sfumata l’idea di fare un film su di lui?
«Non lo so: Felice Caccamo, ormai, è una persona vivente! Quando esce, a teatro, sento il boato delle persone che lo aspettano. Rinunciai a fare il film, ma non so bene nemmeno il motivo: forse per una sorta di gelosia nei confronti del personaggio, benché la sua presenza sia una costante nei miei spettacoli. Compare nella seconda parte di Unplugged, quando porto in scena i classici: quelli che sono obbligato a fare, altrimenti il pubblico mi ammazza! È il momento più spettacolare dello show, fatto di gag, trucco, movimenti in scena, in cui compaiono anche Ray Charles e Adriano Celentano. Ero da Fazio sabato sera (protagonista di una strepitosa puntata speciale di Che tempo che fa dedicata interamente a lui, ndr) e ho detto che continuerò a fare Adriano finché non dirà pubblicamente che sono "forte". Non sapendo che avessimo registrato nel pomeriggio, Adriano ha telefonato in Rai. Poi mi ha chiamato a casa e mi dice: "Cacchio, ma io ho parlato bene di te!". Mi ha raccontato di averlo fatto in un programma di Baudo, ma gli ho fatto presente che voglio lo faccia anche sui giornali! A parte gli scherzi: la nostra amicizia è così profonda che va bene così. Ci conosciamo da 50 anni ed il rapporto è cambiato col tempo. Quando lo conobbi avevamo meno argomenti di cui parlare: i sette anni di differenza, a una cera età, sono tanti. Ora abbiamo sempre un sacco di cose da dirci: su quindici chiamate risponde a una, ma quando lo fa vado a trovarlo a casa».
È vero che aveva progettato di realizzare uno spettacolo teatrale sulla figura del Molleggiato?
«Sì, volevo rappresentare uno spaccato di vita e di musica di quegli anni, di quando iniziò il rock and roll: 1958-1959. Non c’erano i Beatles, ma la grande musica americana: su tutti Elvis. Era il preludio di un grande cambiamento e Adriano, in Italia, era il numero uno in assoluto. Un paio di giorni fa ho incontrato Little Tony: mi ha raccontato che grazie a Celentano capì che il rock poteva essere fatto anche in italiano. Lo mostrò a tutta la sua generazione. Ora, però, lo spettacolo è un po’ fermo per problematiche legate ai diritti d’autore».
CHE NOSTALGIA PER IL MIO AMICO «CUMENDA»
A proposito di amicizie fraterne: c’era anche quella con un bergamasco - che molti credevano essere milanese - Guido Nicheli, il "cumenda".
«Con Guido ho avuto il legame d’amicizia più forte della mia vita. Ci siamo frequentati assiduamente per 20 anni, nonostante la differenza d’età: ci siamo conosciuti che io ne avevo 18, lui 29. Eppure il Dogui era pazzo di me, perché cantavo, ballavo ed ero bello. Fu lui a indirizzarmi nel corso della mia carriera: mi portò in Spagna per la prima volta, insieme scegliemmo la casa in affitto che in seguito ho comprato e dove vivo tuttora. Il nostro legame si allentò un po’ soltanto quando mi sposai: ma fino a quel momento avevo trascorso ogni giorno della mia vita con Guido. Quando morì, nel 2007, fu un enorme dolore: non passa giorno in cui non pensi a lui».
Non trova che il Dogui sia stato un po’ sottovalutato?
«No, anzi: Guido si è inventato un personaggio forgiandolo da zero. Tra l’altro, fu un po’ colpa mia e di Renato Pozzetto: stavamo facendo un film insieme e lo chiamammo sul set. Da lì i fratelli Vanzina si innamorarono del cumenda, così spaccone e al tempo stesso vulnerabile. Ricordo ancora gli inizi della nostra amicizia: faceva il rappresentante di whisky - prodotto a Sesto San Giovanni, immagini la qualità - nei locali notturni milanesi e io lo accompagnavo. A volte capitava che improvvisassi delle esibizioni di cabaret, prendendo in prestito la giacca da camerieri e clienti, e lui mi diceva: "Animale, cosa fai? Io lavoro e te canti?". Ero troppo felice, contento dell’amicizia con Guido. È con lui che ho scoperto il mondo. Anzi, confesso una cosa: sto lavorando a un libro su di lui. Il titolo già c’è - In viaggio col Dogui - e ora sto segnando appunti, ricordi legati a quel tempo. Mentre scrivevo la mia autobiografia (Io ballo da solo, Mondadori, 250 pagine a 19 euro, ndr) mi si è aperta la memoria a angoli dimenticati della mia vita. Ora sto raccogliendo tutto quel che posso. Tutto quel che avevo dimenticato».
Rossella Martinelli
tratto da ilgiornaledibergamo.com
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