giovedì 11 agosto 2011

Teocoli: «Danny Zuko? Potevo essere io, ma...» «Rifiutai per motivi di età. E ancora mi pento»

«Ma te lo immagini un cinquantenne che interpreta uno studente del college, uno dei TBirds»? È per questo motivo che Teo Teocoli non accettò di diventare John Travolta nella versione teatrale di «Grease» di qualche anno fa. L'occasione per tornare con la memoria a quel rifiuto che ancora gli brucia («sì, a ripensarci mi pento di non aver accettato la parte») è l'uscita al cinema, il prossimo 12 agosto, del film cult con Travolta (Danny Zuko) e Olivia Newton John (Sandy), in una inedita versione «sing-a-long», ovvero con il pubblico in sala che stile karaoke partecipa cantando dal vivo i brani più celebri (a Milano al Ducale e all'Uci Bicocca, www.nexodigital.it). Teocoli, che oggi ha giusto il doppio degli anni di «Grease», sessantasei, racconta di quando nel 1997 disse «no» a Lorella Cuccarini, la Sandy che lo voleva al suo fianco nel musical.

«Lorella entrò nel mio camerino. Mi guardò e mi disse "sei perfetto!". Stavo facendo "Il boom", un programma in tv sugli anni Cinquanta: avevo i pantaloni a tubo, i capelli con la brillantina e il ciuffo». «In effetti - scherza lo showman - ero già quasi pronto per andare in scena...». Però disse: no (e il posto fu preso Giampiero Ingrassia): «Mi sentivo vecchio per fare il ragazzino - spiega - e poi c'era anche un timore personale nei confronti di Travolta e di quello che aveva rappresentato. Per me era il Danny di "Grease", ma anche il Tony Manero della "Febbre del sabato sera"». E aggiunge: «In "Grease" avrei potuto fare il parrucchiere, quello che canta "Beauty school drop out" (Frankie Avalon, ndr). Ma non era la stessa cosa».

Già a vent'anni Teocoli conosceva tutti i tipo di ballo: «Sono cresciuto con i musical, erano la mia passione. A Milano ero il miglior ballerino del quartiere, il re delle balere. Mi dicevano che ero portato. Tutto è cominciato con "Il mago di Oz". Il mio preferito, però, resta "West Side Story", che ho rivisto almeno una trentina di volte». E a proposito di musical, non scherza Teocoli quando parla di un progetto cui sta pensando: «è da tempo che mi gira per la testa l'idea di rifare "Hair". L'ho interpretato a 23 anni, sono canzoni che ti restano dentro. Ancora me le ricordo e quando sento "The age of Acquarius" mi vengono i brividi». Teocoli in questi giorni è in vacanza a Ibiza ma «appena torno a Milano vado a vedere "Grease", karaoke o no è sempre un godimento. Poi così mi torna il sorriso». Perché non si sta bene a Ibiza? «Sì, ma quest'anno è un po' sottotono, anche qui tira un'aria di crisi. Si vede che c'è "rella" anche da queste parti».

tratto da IlCorriere.it
di Severino Colombo


domenica 10 luglio 2011

Addio al Derby… o forse no?

Col magone nella voce, l’amarezza negli occhi e la delusione di chi si sente sconfitto ingiustamente, i soci del Nuovo Derby di Milano, situato da tre anni in via Mascagni, a due passi da piazza San Babila, nel cuore pulsante della città, hanno dichiarato la chiusura definitiva del locale. Teo Teocoli

non è neppure salito sul palco per l’annuncio ufficiale alla stampa: è riuscito solo a scorrazzare in moto fuori dal locale e a gridare al vento il suo dolore… Hanno parlato per lui Mario Lavezzi, Maurizio Colombi, Diego Boscaro e Dino Colombi.

Lo storico locale che ha creato il cabaret nostrano oltre mezzo secolo fa, chiamato il Derby di via Monte Rosa, chiuso da moltissimi anni, sembrava poter risorgere grazie all’offerta del Comune di Milano che, a gennaio del 2008, propose di utilizzare lo spazio dell’ex Cinema Arti dopo adeguata ristrutturazione. Chiunque abbia una certa età ricorderà il Cinema Arti o perché ci portava i propri figli oppure perché ha il ricordo di quando ci andava da bambino a vedere i cartoni animati di Walt Disney e certi film western o storici, tipo ‘Sansone e Dalida’. Roba per famiglie e, per la precisione, l’unico in città con questo target.

Di fatto, in meno di 10 anni Milano ha visto la chiusura di oltre una ventina di locali… Moratti, morituri te salutans! Solo che adesso finalmente c’è una novità: c’è Pisapia come sindaco ma la giunta sta ancora facendo i conti e valutando il mostruoso buco lasciato dalla sindachessa Moratti. Il che significa che non sono in grado di valutare i singoli problemi alla luce d’ingrandimento ancora per un po’. Ed ecco i problemi del Derby: hanno dovuto pagare 250.000,00 euro di debiti arretrati per entrare in possesso della gestione del teatro, chiuso da tempo.

Dopo solo tre mesi di apertura del locale, che non faceva solo cabaret ma anche jazz, musica varia, teatro e operetta grazie alla collaborazione con la Felix Company, si è scoperto che l’immobile era stato assegnato alla vendita lottizzata con bando di gara aperto nel 2007, detto ‘cartolarizzazione’; uno dei tanti ‘conigli’ che il governo guidato da Tremonti ha fatto saltar fuori dal cilindro per saldare questioni in sospeso, fingendo che non ci fossero fughe di denaro e vuoto di contanti. Intanto riprendono i lavori di ottimizzazione dei locali, contestati dai vigili che chiudono in continuazione il Derby, impedendo lo svolgimento della stagione ufficiale. Ecco perché si inizia a chiudere in ottobre del 2008, ma sarà solo l’inizio di un turbine farsesco di problemi.

A novembre 2008 il locale riaapre con agibilità provvisoria ma è obbligatorio tenere i vigili in sala a ogni rappresentazione e viene chiusa la galleria. Così i posti diminuiscono e i costi aumentano, mentre i biglietti degli spettatori diminuiscono di numero e non si vuole aumentare il costo del biglietto. In pratica, gli artisti lavorano quasi sempre a gratis o per pochissimo, sempre e solo per passione. Eppure col passare del tempo sono più le serate di chiusura che non di spettacoli e diventa impossibile non accumulare debiti, nonostante si fosse sparsa la voce e tutti quelli che non andavano allo Zelig o al Colorado Cafè venivano qui, al nuovo Derby. Ci trovavi bella gente nel pubblico!

Il debito col Comune viene pagato in tre quote ma l’assessore che aveva offerto il locale risulta poi essere il medesimo che tiene la delega al commercio e a questo punto sorgono spontanee alcune riflessioni: come mai l’immobile sembra essere destinato a uffici commerciali quali banche e altro? Come mai ci sono state continue difficoltà su pochi centimetri che rendevano scorrette le misure delle porte piuttosto che il sistema di aerazione, mai in regola nonostante i continui lavori? Ora si sa che il palazzo sarà venduto proprio mentre il gruppo del Derby aveva proposto al Comune di realizzare una scuola di ballo, una scuola di cabaret, di dare spazi alternativi agli studenti del vicino Conservatorio…

Forse la nuova giunta potrà riconsiderare tutto ciò, magari anche solo per trovare una nuova e dignitosa sede ai tanti artisti che, indipendentemente dalla loro età, hanno scritto belle pagine di cultura, arte, spettacoli e divertimento in una città come Milano, che ne ha bisogno tantissimo! Persone schiette, ancora con lo spirito di insegnare, diffondere, rallegrare e proporre le loro esperirne ai giovani senza alcun partito preso, sempre aperti al nuovo e all’arte. Che si sono resi conto di non avere l’animo del contabile, capace di valutare i trabochetti e che, dopo aver pagato per intero il pauroso debito residuo e non di loro diretta competenza, non sono più riusciti a pagare gli 84.000,00 euro l’anno di affitto! Senza contare i soldi usciti per i lavori…

I molteplici problemi provocati dall’aerazione avrebbero dovuto essere risolti dal proprietario dei muri, ovvero il Comune e invece era proprio il Comune, attraverso continui controlli dei vigili del fuoco, a richiedere lavori che avrebbero dovuto eseguire loro stessi. Insomma, fatto sta che i soci del Derby hanno speso oltre 100.000,00 euro in costi per ottenere l’agibilità, che veniva continuamente modificata e ogni volta saltava fuori un’altra rogna. Definire amareggiato questo gruppo di artisti è dire poco: avevano creduto fino in fondo al progetto del Nuovo Derby e l’incapacità manageriale non ha impedito loro di presentare ben 150 spettacoli diversi, tutti realizzati da loro personalmente a gratis, perché con meno di 400 posti non ci si guadagna, appena ci si paga le spese, forse.

E’ per questo tra l’altro che era nato il Fuss, il Fondo per lo Spettacolo, no?. Purtroppo la speculazione impoverisce le nostre città con la chiusura di cinema e teatri mentre altrove nel mondo si costruiscono spazi per la cultura proprio nei centri storici. C’è solo una buona notizia: la Sony pubblicherà a ottobre un cofanetto “Da Derby a Derby” con tutti i magnifici interventi dei personaggi storici fino agli ultimi show. Vale a dire con i frequentatori del vecchio Derby, dai Gufi a Enzo Jannacci, dalla coppia Cochi e Renato a Teo Teocoli e a Walter Valdi, Paolo Villaggio, Lino Toffolo, Dino Sarti, Antonio Ricci, fino a Diego Abatantuono, Paolo Rossi, Massimo Boldi, Felice Andreasi e all'ultima generazione di Claudio Bisio, allora in coppia con Antonio Catania.

Il locale fu un vero trampolino di lancio per innumerevoli comici del momento, oggi personaggi di grande popolarità, sia televisiva sia teatrale e cinematografica. Per quasi trent'anni, fu punto di riferimento per gli artisti di tutta l’Italia, fino al 1986, anno della chiusura. Quindi ricordiamo appunto Teo Teocoli, Mario Lavezzi, e gruppi di giovani e meno giovani che hanno amato tornare sul palco di un locale mitico, che non dovrebbe morire. Chissà se qualcuno sentirà queste voci e saprà dare una giusta risposta, come ad esempio una nuova sede non troppo decentrata con la possibilità di spalmare i debiti su alcuni anni a venire e un affitto non così esoso... La speranza è l’ultima a morire!

di Daniela Cohen
tratto da www.teatro.org

giovedì 24 febbraio 2011

«Ora un libro sul Dogui» Sabato al Creberg con «Unplugged»: il Teo nazionale si racconta


Il personaggio che ama maggiormente è Felice Caccamo («ormai è come se fosse una persona reale»), il mitologico giornalista sportivo partenopeo al quale diede - ignaro del fatto che sarebbe diventato uno dei cavalli di battaglia - il suo vero cognome di battesimo. Teo Teocoli, 66 anni dopodomani, 46 dei quali passati nel mondo dello spettacolo (esordì come cantante per la Dischi Ricordi, poi un anno nella PFM, l’inizio dell’avventura con il Clan Celentano, il debutto nel musical Hair, la gavetta al Derby e la grande notorietà televisiva), ha conosciuto e frequentato i personaggi del jet set mondiale: Salvador Dalì, Brigitte Bardot, Robert De Niro, Harvey Keitel, l’avvocato Agnelli, ma anche Adriano Celentano, Cochi e Renato, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci. Proprio con uno dei suoi amici di lunga data, Mario Lavezzi, ha dato vita a un nuovo spettacolo: Unplugged, cioè Anplagghed, tra i titoli più attesi della stagione del Creberg, in scena questo sabato.
Ma il suo migliore amico è stato un bergamasco: Guido Nicheli, meglio conosciuto come il Dogui, il cumenda o lo Zampetti de I ragazzi della terza c. Quando ne parla, si riempie di gioia nell’evocare tempi che furono; felicità che si trasforma presto in malinconia, per la scomparsa della persona che gli ha fatto scoprire il mondo. «Non passa giorno che non pensi a lui» spiega, con la voce che si affievolisce.

«MOLLAI LA PFM PER PIGRIZIA»
Ne La compagnia dei giovani ospitò sul palco Tony Dallara, Gaspare e Zuzzurro e Mario Lavezzi, che ricompare ancora come special guest di Unplugged: vien da pensare che per lei sia importante lavorare con gli amici.
«Sì. In questo caso è un ritorno al sapore cabarettistico, cui ho voluto aggiungere il cantautorato. Io e Mario abbiamo molto in comune: sia per le professioni, che per quanto riguarda le nostre vite. L’ho conosciuto 50 anni fa: eravamo due ragazzini. Abbiamo percorso strade diverse e ci siamo reincontrati di recente, grazie ad amici. In scena portiamo gli aneddoti che hanno arricchito questo percorso. Unplugged è uno spettacolo suggestivo: sul palco ci sono soltanto una chitarra e due microfoni, eppure si crea una situazione piacevole».
La sua carriera, però, ha avuto molto a che fare con la musica: dal 1966 al 1967 fu la voce de I Quelli, poi diventati Premiata Forneria Marconi. Si è mai pentito della chiamata che fece a Franz Di Cioccio, per ritirarsi dalla band?
«No, sono stato onesto a mollare I Quelli: io non ho molta pazienza, energia o voglia di apprendere. Vivo di fantasia e di improvvisazione, mentre la musica richiede studio e desiderio di crescere. Le faccio un esempio: non ho mai imparato il giro di do con la chitarra! L’unica cosa che mi poteva dare continuità lavorativa era raccontare: con le canzoni non avrei avuto un vero percorso. Però, per i 35 anni, la PFM mi ha invitato al concerto al Rolling Stone e ci siamo esibiti insieme: è stata una serata bellissima e hanno persino messo la mia foto nel cofanetto».
Al Creberg, insieme a lei e a Lavezzi, ci sarà un altro suo amico: Felice Caccamo. È sfumata l’idea di fare un film su di lui?
«Non lo so: Felice Caccamo, ormai, è una persona vivente! Quando esce, a teatro, sento il boato delle persone che lo aspettano. Rinunciai a fare il film, ma non so bene nemmeno il motivo: forse per una sorta di gelosia nei confronti del personaggio, benché la sua presenza sia una costante nei miei spettacoli. Compare nella seconda parte di Unplugged, quando porto in scena i classici: quelli che sono obbligato a fare, altrimenti il pubblico mi ammazza! È il momento più spettacolare dello show, fatto di gag, trucco, movimenti in scena, in cui compaiono anche Ray Charles e Adriano Celentano. Ero da Fazio sabato sera (protagonista di una strepitosa puntata speciale di Che tempo che fa dedicata interamente a lui, ndr) e ho detto che continuerò a fare Adriano finché non dirà pubblicamente che sono "forte". Non sapendo che avessimo registrato nel pomeriggio, Adriano ha telefonato in Rai. Poi mi ha chiamato a casa e mi dice: "Cacchio, ma io ho parlato bene di te!". Mi ha raccontato di averlo fatto in un programma di Baudo, ma gli ho fatto presente che voglio lo faccia anche sui giornali! A parte gli scherzi: la nostra amicizia è così profonda che va bene così. Ci conosciamo da 50 anni ed il rapporto è cambiato col tempo. Quando lo conobbi avevamo meno argomenti di cui parlare: i sette anni di differenza, a una cera età, sono tanti. Ora abbiamo sempre un sacco di cose da dirci: su quindici chiamate risponde a una, ma quando lo fa vado a trovarlo a casa».
È vero che aveva progettato di realizzare uno spettacolo teatrale sulla figura del Molleggiato?
«Sì, volevo rappresentare uno spaccato di vita e di musica di quegli anni, di quando iniziò il rock and roll: 1958-1959. Non c’erano i Beatles, ma la grande musica americana: su tutti Elvis. Era il preludio di un grande cambiamento e Adriano, in Italia, era il numero uno in assoluto. Un paio di giorni fa ho incontrato Little Tony: mi ha raccontato che grazie a Celentano capì che il rock poteva essere fatto anche in italiano. Lo mostrò a tutta la sua generazione. Ora, però, lo spettacolo è un po’ fermo per problematiche legate ai diritti d’autore».

CHE NOSTALGIA PER IL MIO AMICO «CUMENDA»
A proposito di amicizie fraterne: c’era anche quella con un bergamasco - che molti credevano essere milanese - Guido Nicheli, il "cumenda".
«Con Guido ho avuto il legame d’amicizia più forte della mia vita. Ci siamo frequentati assiduamente per 20 anni, nonostante la differenza d’età: ci siamo conosciuti che io ne avevo 18, lui 29. Eppure il Dogui era pazzo di me, perché cantavo, ballavo ed ero bello. Fu lui a indirizzarmi nel corso della mia carriera: mi portò in Spagna per la prima volta, insieme scegliemmo la casa in affitto che in seguito ho comprato e dove vivo tuttora. Il nostro legame si allentò un po’ soltanto quando mi sposai: ma fino a quel momento avevo trascorso ogni giorno della mia vita con Guido. Quando morì, nel 2007, fu un enorme dolore: non passa giorno in cui non pensi a lui».
Non trova che il Dogui sia stato un po’ sottovalutato?
«No, anzi: Guido si è inventato un personaggio forgiandolo da zero. Tra l’altro, fu un po’ colpa mia e di Renato Pozzetto: stavamo facendo un film insieme e lo chiamammo sul set. Da lì i fratelli Vanzina si innamorarono del cumenda, così spaccone e al tempo stesso vulnerabile. Ricordo ancora gli inizi della nostra amicizia: faceva il rappresentante di whisky - prodotto a Sesto San Giovanni, immagini la qualità - nei locali notturni milanesi e io lo accompagnavo. A volte capitava che improvvisassi delle esibizioni di cabaret, prendendo in prestito la giacca da camerieri e clienti, e lui mi diceva: "Animale, cosa fai? Io lavoro e te canti?". Ero troppo felice, contento dell’amicizia con Guido. È con lui che ho scoperto il mondo. Anzi, confesso una cosa: sto lavorando a un libro su di lui. Il titolo già c’è - In viaggio col Dogui - e ora sto segnando appunti, ricordi legati a quel tempo. Mentre scrivevo la mia autobiografia (Io ballo da solo, Mondadori, 250 pagine a 19 euro, ndr) mi si è aperta la memoria a angoli dimenticati della mia vita. Ora sto raccogliendo tutto quel che posso. Tutto quel che avevo dimenticato».
Rossella Martinelli

tratto da ilgiornaledibergamo.com